martedì 14 agosto 2012

IL GIORNO DELLA MEMORIA - Pontelandolfo 14 agosto del 1861: fu strage






Ricordando l'eccidio di Pontelandolfo
Il paese martire simbolo della devastante
conquista piemontese



Il 14 agosto del 1861 si consumò uno dei più efferati eccidi che la storia italica abbia mai conosciuto. Quello che fecero altri eserciti invasori alla nostra gente sbianca di fronte alla crudeltà ed alla spietatezza che la soldataglia piemontese riservò alla popolazione di questo antico paese del Sannio.
Ricordiamo con commozione, raccapriccio e sdegno i tristi eventi di una storia ancora celata dalla vergogna dei vincitori.
I sabaudo-piemontesi massacrarono, depredarono, e ridussero alla fame, alla disperazione ed alla emigrazione una Nazione antica, feconda e felice, considerando carne da macello e "beduini della peggiore specie" migliaia di contadini, pastori, donne, vecchi e bambini.
Pontelandolfo attende ancora le scuse, la pietà ed il risarcimento morale da quei fratelli cattivi di un'Italia matrigna che non ancora ha preso le distanze dai delittuosi fatti del 1861.
Il 14 agosto è un giorno di lutto per tutti i Meridionali, è il nostro giorno della memoria, è il giorno in cui si commemorano tutti i civili uccisi dai piemontesi, per ordine dei Savoia, nei bombardamenti e nei roghi dei loro paesi, è il giorno in cui si ricorda che c'è una ferita profonda ancora aperta, una ferita sanguinante che impedisce al cuore ed alle menti di un Popolo massacrato, umiliato ed offeso, di sentirsi pienamente partecipe di una nazione che continua a volere ignorare una storia fatta di dolore, di disperazione e di morte che da 151 anni attende di essere scritta nei libri di scuola.

Cap. Alessandro Romano

 La lapide che "umilmente" e laconicamente ricorda l'eccidio di Pontelandolfo



Truppa Italiana Colonna Mobile - Fragneto Monforte li 14 Agosto 1861 ore 7 a.m.
Oggetto: Operazione contro i Briganti

Ieri mattina all'alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora. Il sergente del 36° Reggimento, il solo salvo dei 40, è con noi. Divido oggi le mie truppe in due colonne mobili; l'una da me diretta agirà nella parte Nord ed Est, l'altra sotto gli ordini del maggiore Gorini all'Ovest a Sud di questa Provincia la quale pure, come più prossima a Benevento, dovrà tenere frequenti comunicazioni colla S.V. Informi di ciò il Generale Cialdini ed il Generale Pinelli.
Il Luogotenente Colonnello Comandante la Colonna; firmato NEGRI.


Al Sig. Governatore della Provincia di Benevento ps. stasera sono a Fragneto l'Abate, ove, occorrendo può farmi tenere sue nuove fino alle nove di notte.




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IL GIORNO DELLA MEMORIA

di
Francesca Romano

Fa male ricordare. Ma è necessario. E’ necessario perché “l’ingiustizia e i crimini contro l’umanità, perché non si ripetano, si combattono con la forza della memoria e non con il velo dell’oblio” come si affermava nel Bollettino della Rete Due Sicilie il 14 agosto del 2003.
Per crimini contro l’umanità s’intendono “azioni criminali ovvero violenze e abusi contro popoli o parte di popoli o che, comunque, siano percepite, per la loro capacità di suscitare generale riprovazione, come perpetuate a danno dell’intera umanità.” 
Ciò che accadde a Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro, ma anche in Sicilia, in Calabria, in Lucania, in Abruzzo, nel resto della Campania e del Sannio, deve al più presto divenire oggetto di una seria indagine storica finalizzata al riconoscimento di quelli che, sicuramente, furono crimini di guerra perpetrati dalle truppe piemontesi ai danni dei soldati e delle popolazioni civili meridionali, che reagivano all’illegittima invasione e che, sicuramente, sono da considerarsi, per la loro efferatezza e crudeltà, crimini contro l’intera umanità.
Da Bronte in Sicilia fino a Fenestrelle, una sorta di lager ai piedi delle Alpi piemontesi, dove furono deportati i soldati fedeli al sovrano borbonico, ci sono i segni tragici di una storia che non si pacificherà finché non verrà accuratamente indagata e svelata. Possiamo in questa sede solo ricordare alcune atrocità che ci tramandano fonti borboniche e fonti piemontesi, proprio per non dimenticare. Possiamo ricordare i bersaglieri che nel paese di Pontelandolfo, per ordine del Negri, lo stesso Negri al quale fu dedicata una lapide commemorativa, fucilarono quanti capitavano a tiro: preti, uomini, donne, bambini e che saccheggiarono le case, violentarono le donne, diedero alle fiamme e rasero al suolo il paese di 4500 abitanti. Morire subito fucilati o arsi vivi era da considerarsi una fortuna nel paese, perché morire subito e ingiustamente avrebbe evitato altre violenze contro il genere umano. Ricordiamo tristemente Nicola Biondi, un contadino sessantenne legato a un palo della stalla da una decina di bersaglieri che denudarono di fronte a lui la figlia sedicenne e la violentarono a turno per poi lasciarla a terra sanguinante per la vergogna e il dolore, mettendo infine termine alle sofferenze di entrambi fucilandoli. Ricordiamo Santopietro che, con il figlio in braccio, cercando di fuggire, fu bloccato dai militari che gli strappano il bambino dalle braccia e lo uccisero. Nemmeno le donne che si erano rifugiate nelle chiese furono risparmiate, alcune vennero denudate e violentate davanti all’altare, poi uccise. Una, per aver opposto resistenza graffiando l’aggressore, venne mutilata delle mani e poi ammazzata. Tutte le chiese furono oltraggiate, le ostie sante gettate, i calici, i quadri, e tutti gli oggetti sacri, se preziosi, rubati. Alla fine i ligi bersaglieri piemontesi riuscirono ad accontentare il Cialdini che aveva ordinato che non restasse di quel paese pietra su pietra. Poche ore dopo l’accaduto, il Negri telegrafò infatti a Napoli: “Giustizia è fatta”.
Prima di iniziare ricerche più approfondite, prima di adoperarsi per un’azione più energica volta al riconoscimento di queste stragi, in attesa di un’ammissione di colpe e di una sorta di giustizia, ogni essere umano che viene a conoscenza di questi eventi disumani e in particolare ogni meridionale, in questa nostra giornata della memoria non può far altro che ritagliarsi almeno un minuto di silenzio.





14 AGOSTO 1861
A PONTELANDOLFO INIZIA IL MASSACRO


I giornali, pur controllati dal governo, pubblicano i dati ufficiali della repressione nel Sud: nel napoletano si contano già 8.968 fucilati, fra cui 64 sacerdoti e 22 frati, 10.604 feriti, 60 ragazzi e 48 donne uccise, 13.529 persone arrestate, 1428 comuni sollevati, 6 paesi dati alle fiamme.

Nel Sannio beneventano, nei paesi di Pontelandolfo e Casalduni circondati da monti ormai pieni di bande partigiane, si respira un'aria di sollevazione come in migliaia di altri paesi del Sud occupato. Un contadino di Casalduni, di nome Fusco, rifiuta di far presentare il figlio richiamato alla leva piemontese: "Meglio morire per Dio e per il re nostro e fucilato davanti ai miei occhi, che servire Vittorio Emanuele".

In quel periodo nel paese si tiene la tradizionale fiera di San Donato, che fa giungere a Pontelandolfo molti abitanti dei paesi vicini. Tra questi Cosimo Giordano, ex sergente borbonico alla macchia già da tempo, che decide di entrare in azione, ed entra in paese con una quindicina di uomini armati.

La presenza del fedele soldato provoca come una scintilla su un bidone di petrolio: l'intera popolazione si precipita per le strade, ed improvvisa una processione gridando a squarciagola "Viva Francesco II, viva 'o rre nuosto" , e, raggiunta la chiesa, fa celebrare un Te Deum di ringraziamento. Poi si reca in municipio, dove fra il tripudio della folla vengono abbattuti gli stemmi sabaudi e il ritratto di Vittorio Emanuele.

Nel vicino paese di Casalduni accade altrettanto.

La febbre si sparse in tutto il circondario, ed anche Fragnito Manforte e Campolattaro insorsero. I liberali dell'ultima ora subirono il saccheggio delle loro abitazioni e fuggirono a Benevento.

L'11 agosto giunsero da Campobasso 40 uomini del 36" Rgt. Di linea piemontese, al comando del tenente Bracci. La popolazione reagì, ed uccise uno dei soldati, gli altri si barricarono nella torre.

Spettacolo indegno furono proprio i liberali rimasti che, vista la parata, passarono nel campo degli insorti, essendo anzi tra i più eccitati a farla finita con i piemontesi.

Affrontati dal popolo, guidato dall'ex militare napoletano Angelo Pica, furono uccisi in sei, compreso il tenente Bracci. Gli altri furono imprigionati ma il Pica, temendo il crescente furore della gente, decise di fucilarli tutti dopo un sommario processo.

Un tenente piemontese raccontava: "Gli abitanti di questo villaggio (Pontelandolfo) commisero la più nera barbarie, ma la punizione che gli venne inflitta, per quanto meritata, non fu meno barbara: un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case e poi mise fuoco all'intero villaggio, che venne completamente distrutto. Stessa sorte toccò a Casalduni".

Chi aveva dati gli ordini per giungere ad un massacro che supera di gran lunga quelli visti durante l'ultima guerra? Enrico Cialdini. Lo stesso che aveva bombardato Gaeta, comodamente seduto in poltrona a Formia nella villa reale, per ben tre mesi, senza tentare il minimo assalto, e che nell'ultimo giorno di assedio, con i preliminari di resa firmati, aveva preferito continuare a bombardare mietendo vittime innocenti.

Un ufficiale piemontese, Carlo Melegari, in un volumetto di memorie anni dopo ricordava di aver incontrato il Cialdini al San Carlo. Questi, appena vedutolo lo apostrofò: "Ella avrà sentito parlare del doloroso ed infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo, orbene, il Generale Cialdini non le ordina, ma desidera vivamente che di questi due paesi non rimanga più pietra su pietra. Ella è autorizzato a ricorrere a qualsiasi mezzo, e non dimentichi che il Generale desidera che quei poveri nostri soldati siano vendicati, infliggendo a quei due paesi la più severa punizione".

Tempo dopo lo stesso Melegari ricordava come fosse stato "assolutamente necessario" punire gli abitanti di quel paese, insieme al sindaco ed al parroco, che erano tutti vergognosamente avversi all'unità d'Italia e partigiani del governo borbonico, avendo coltivato e fomentato lo spirito di "ribellione contro il governo piemontese".

Dal numero del 2/agosto/1997del quotidiano "Il Sud".





Cosimo Giordano, Carlo Sartore e Francesco Guerra

Il gen. Enrico Cialdini


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Dal diario di guerra 
del bersagliere Carlo Margolfo


Carlo Margolfo



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LA STRAGE? 
“ESEGUÌ GLI ORDINI”
di 
Pino Aprile


Togliere la medaglia d’oro al colonnello Pier Eleonoro Negri, che guidò la rappresaglia contro Pontelandolfo e Casalduni? No, dice il presidente dell’associazione bersaglieri di Vicenza, perché “eseguì gli ordini». Anche Reder, anche Kappler, anche Heichmann

Ci ho pensato alcuni giorni. Ma non credo ci si possa passar sopra: il massacro forse più efferato compiuto al Sud, dai bersaglieri, per rappresaglia, fu soltanto una legittima azione di guerra. Lo si sostiene ancora oggi, dopo 150 anni, dopo che si è scoperto che non erano “leggende” i racconti sulla strage condotta a Pontelandolfo e Casdalduni, 5000 mila abitanti l’uno, 3000 l’altro, in provincia di Benevento. I bersaglieri ebbero libertà di stupro e di saccheggio, violentarono e uccisero sull’altare le donne che si erano rifugiate in chiesa; diedero fuoco ai paesi, con la gente nelle case. Non si è mai saputo con certezza quante centinaia di vittime (alcuni dicono oltre mille) si ebbero. Ancora oggi il macellaio che guidò la mattanza, il nobile vicentino Pier Eleonoro Negri, viene onorato ogni anno con la deposizione, da parte del sindaco, di una corona d’alloro, dinanzi alla lapide che lo ricorda. «Posso io assumermi la responsabilità di cancellare la prima medaglia d’ oro dei bersaglieri?», ha detto il sindaco a Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che hanno dedicato tre pagine alla vicenda, alcuni giorni fa, sul Corriere della Sera. Ma a far venire i brividi è la frase riportata subito dopo dai due colleghi del Corsera: “Quanto all’ associazione del corpo «piumato», il presidente vicentino Antonio Miotello ha detto ad Antonio Trentin, del Giornale di Vicenza, che non se ne parla neanche: «Era in zona di guerra. Eseguì degli ordini»”.

Capito? Era in zona di guerra, eseguì gli ordini. A parte il fatto che quella zona era divenuta di guerra, perché l’esercito di cui faceva parte Negri la invase, la mise a ferro e fuoco e la depredò, senza nemmeno averla dichiarata la guerra; ma se la guerra (d’invasione) giustifica le rappresaglie, gli stupri, il saccheggio, le fucilazioni di massa, allora chiediamo scusa ai macellai nazisti Reder, Kappler, Heichmann.

Abbiamo processato (“abbiamo”, intendendo il mondo che si ritiene civile) a Norimberga quelli che credevano di poter giustificare il massacro di propri simili dicendo di aver “soltanto eseguito ordini”. Vale solo per gli altri? Anche Saddam Hussein è stato processato e giustiziato, per aver eseguito rappresaglie contro città di suoi connazionali. Vale solo in Iraq?

Io non guardo le divise e le bandiere, ma le azioni; se le azioni 




Il Capitano Negri



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Le stragi di Casalduni 
e Pontelandolfo
di
Francesca Romano

Lo spaventoso silenzio che la storia ufficiale ostenta riguardo i fatti di Casalduni, Pontelandolfo e dei complessivi 54 paesi rasi al suolo, ha generato incredulità al punto da metterne in dubbio la stessa esistenza. C’è poi chi, come il Mola, parlando della strage di Pontelandolfo in un articolo della rivista "Storia in Rete", del febbraio di quest’anno, dice che “il brigantaggio non fu una Vandea né una guerra civile perché in Italia l’unificazione del 1860- 61 non impose un regime rivoluzionario dalle conseguenze politico- sociali catastrofiche, non fu un terrore giacobino, né erse una classe contro altre, bensì, in termini molto più pacati e compatibili con l’Europa del tempo, sancì l’assorbimento degli stati preunitari da parte del Regno di Sardegna, che era omologo a quelli annessi e operò sulla base dei plebisciti.”
Innanzitutto, per onestà intellettuale, credo che occorra chiamare le cose con il loro nome, eliminando una volta per tutte il termine brigantaggio per indicare la reazione armata dei sudditi del Regno delle Due Sicilie, fedeli alla monarchia borbonica, che riconoscevano loro garante, contro una rivoluzione liberale di una minoranza interna appoggiata militarmente dall’aggressione piemontese.  Per quanto riguarda le analogie con il caso della Vandea, ritengo che queste siano molte di più delle differenze. Lampante analogia con la Vandea è la grande partecipazione alla reazione armata da parte delle classi contadine. Come nella controrivoluzione armata in Vandea abbiamo poi casi di chiese oltraggiate e clero assassinato. La differenza è forse che nel caso della Vandea gli artefici di tali atti dissacratori e blasfemi erano rappresentanti di una rivoluzione dichiaratamente atea, nel caso nostrano gli artefici rappresentavano un sovrano cattolico. Come in Vandea, inoltre, la componente legittimista, un legittimismo di respiro europeo si contrapponeva a una rivoluzione antilegittimista. 
Non tutti i liberali meridionali si erano resi conto che la  rivoluzione in cui credevano, propugnata dalla propaganda liberale straniera, inglese in particolare, interessata alla nascita di uno stato italiano debole soprattutto nel Mediterraneo, era una rivoluzione contro il meridione e che ben presto la componente nord centrica avrebbe preso il sopravvento anche su di loro. D’altra parte non avrebbero potuto immaginarlo visto il colossale divario che all’epoca esisteva tra il piccolo, pedemontano, indebitato, Piemonte e i territori di quello che era stato da secoli l’illustre, potente, ricco Regno di Napoli. Non fu giacobino, ma fu certo terrore quello che per quindici anni l’esercito piemontese perpetuò nel Sud anche sulla base delle teorie razziste e pseudoscientifiche del Lombroso che partecipò come medico militare alla campagna piemontese nel meridione. Basti pensare alle esecuzioni sommarie, ai rastrellamenti, agli omicidi consumati nel silenzio con arma da taglio "per non creare angoscia ai cittadini" come a Campolattaro.
Ci sarebbe da riflettere sul fatto che l’Europa del tempo condividesse i metodi brutali utilizzati dai piemontesi che il Mola definisce appunto pacati e compatibili con l’Europa del tempo. Al contrario, fonti dirette, ma soprattutto indirette, ci fanno pensare che anche l’Europa del tempo aborriva o avrebbe aborrito i fatti di Casalduni e Pontelandolfo. Sull’Osservatore Romano, in un numero uscito a non più di un anno di distanza da quel 20 settembre 1870, si minacciava di rendere noti e di denunciare alla comunità internazionale i fatti di Casalduni e degli altri paesi rasi al suolo tentando in questo modo di incutere timore allo stato italiano che pur professandosi cattolico si macchiava di crimini non solo contro il cattolicesimo, ma contro l’intero genere umano. Per scriverlo evidentemente il rischio che qualcosa di grave fosse successo in quei paesi c’era e se poi lo si cita minacciando di renderlo noto in maniera più dettagliata, forse dovrebbe venire il dubbio che questi metodi brutali non fossero proprio condivisi dal contesto internazionale del tempo. Considerare, poi, i plebisciti come prova del clima di grande legittimazione interna, significa non considerare che l’utilizzo di uno strumento democratico come il plebiscito, non necessariamente comporta un reale esercizio della democrazia essendo per natura molto facile manometterne i risultati o cadere nell’irregolarità, per cui le accuse ai plebisciti che nelle fonti della parte avversa sono dipinti come pagliacciate o buffonate non devono automaticamente escludersi come di parte.
Al di là di ogni diversità di opinione e interpretazione sulle vicende storiche, vediamo come la memoria dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni, tiri inevitabilmente in ballo questioni inerenti un contesto storico più ampio che senza dubbio occorre riscrivere. Ecco perché forse si preferisce ignorare le stragi o minimizzarne la gravità.